Per ragioni familiari sulle quali non ci dilungheremo, Aristide nella sua Missione in Africa era “accompagnato” dal piccolo Franco, l’unico figlio maschio.
All’epoca del soggiorno africano tra 1935 e 1942, il piccolo Franco era un bambino impegnato a pieno dai suoi obblighi scolastici. Nelle pause tra tali impegni, riusciva a lasciare il collegio delle Suore ad Asmara per seguire il padre nelle Missioni Esplorative nelle aree interne del Corno d’Africa, tutte Aree che ricadevamo nell’Amministrazione dei territori coloniali dell’Africa Orientale Italiana, meglio nota come AOI.
Principalmente la Missione della Spedizione esplorativa guidata da Aristide, si era dipanata in territorio Etiope tra le regioni del Benisciangull e quella delle Sorgenti del Nilo azzurro.
Aristide, in qualità di Capo Colonna dei servizi tecnici delle aziende minerarie statali dell’Eritrea ed Etiopia, dirigeva un sostanzioso gruppo di uomini. Si trattava principalmente di Topografi e Tecnici Specialisti che si sarebbero dovuti occupare della prospezione mineraria di intere regioni compilando monografie e raccolta di rilievi planimetrici delle varie località ed in modo speciale di tutta la regione comprendente le sorgenti del Nilo Azzurro.
Questa, la parte Ufficiale della Missione, quella non Ufficiale, la parte “riservata”, consisteva nel procurare, tra le Tribù indigene, “simpatie, consensi, informazioni ed informatori” a sostegno della politica coloniale italiana del periodo. Questa seconda riservata parte della Missione, proprio in quei territori, si era fatta con il tempo via via più rilevante con l’approssimarsi dei Venti di Guerra.
Nel Nord Africa, così come proprio nel Corno d’Africa, di lì a poco si sarebbe giocata buona parte della sorte dell’intero conflitto Mondiale.
Fra tutte le avventure che Papà Franco ci dedicava, con l’afflato e la passione di chi voleva così anche tentare di colmare il “vuoto” di un Nonno mai conosciuto, alcune storie spiccavano per intensità emotiva e, proprio per questo, venivano continuamente riproposte.
Una prima, la Storia del “Diavolo”, dalla definizione degli Indigeni locali di un imponente magnifico leone maschio dominante, narrava di un animale che non aveva trovato di meglio da fare che trasformare, nella propria dispensa, le misere greggi delle piccole comunità indigene.
Gli indigeni dei villaggi della zona, dove la Carovana di Aristide era presente con il proprio accampamento, si erano lamentati di un grosso leone che in occasione di ripetute incursioni aveva sbranato diversi animali da cortile. Gli indigeni lo avevano ribattezzato “il diavolo” proprio per le sue apparizioni notturne durante le quali aveva terrorizzato, ed a volte anche gravemente ferito, gli indigeni messi di guardia alle greggi nell’improbabile tentativo di opporre difesa.
Le incursioni del “Diavolo”, sempre più frequenti, avevano seminato il panico fra le comunità locali, provocato gravi perdite a chi aveva già ben poco da proteggere e viveva di una misera economia di sussistenza. Il capo tribù di un piccolo villaggio Etiope, esasperato, si era recato all’accampamento del “Buana Aristide” per chiedergli aiuto.
Aristide, come sempre, aveva preso a cuore la questione e non aveva inteso restare con le mani in mano. Peraltro, la sua era una Missione anche Militare, doveva portare dalla parte dei Colonizzatori prima, e dei Militari dopo, quante più simpatie e magari, informazioni ed informatori, possibili. Il tutto senza celare che, secondo i condivisi standard di pensiero e costumi dell’epoca, l’idea di portare in Italia anche la pelle di un leone non gli sarebbe affatto dispiaciuta, avrebbe fatto coppia con quella di leopardo che già possedeva.
L’occasione della sua azione sul campo si presentò in concomitanza, non voluta, con la visita alla Missione di un importante gerarca fascista che, venuto a conoscenza dei fatti, aveva espresso l’insistente desiderio di assistere a quella che per Lui altro non era che un’occasione esotica di “Caccia grossa al leone”. Così Aristide organizzò “il Safari”.
Nei giorni che avevano preceduto l’agguato, gli Esploratori indigeni della Missione avevano battuto la zona dove il felino era stato avvistato, individuato le tracce e i percorsi abituali.
E così si erano appostati, un paio d’ore prima dell’alba, proprio nei pressi della pozza d’acqua dove la bestia era solita abbeverarsi dopo la caccia notturna. Aristide aveva impartito precise istruzioni al suo autista, un Ascaro indigeno, che aveva mimetizzato completamente la jeep utilizzando le frasche del bush circostante.
Perfettamente occultati all’interno della piccola jeep scoperta, con il parabrezza anteriore ribaltato sul cofano del motore, in tre si erano sistemati sull’unico sedile del veicolo. Il Gerarca fascista seduto in mezzo tra l’autista e Aristide. Quest’ultimo era attrezzato con i due inseparabili Mauser da caccia grossa, un primo carico e pronto a sparare, stretto tra le gambe, un secondo riposto sul fondo della jeep.
Il piccolo Franco, che nell’occasione aveva seguito il padre Aristide, era ben protetto in una specie di ripostiglio del veicolo immediatamente a ridosso della seduta principale, normalmente destinato a stivare bagagli ed attrezzatura varia.
Erano in attesa da più di due ore, il “Diavolo” non si era visto ed il sole cominciava a farsi alto, la frescura della notte stava lasciando posto ad un fastidioso caldo umido che annunciava l’imminente stagione delle piogge, allorché Aristide ritenne di considerare concluso per quel giorno l’inutile appostamento. Ci avrebbero riprovato l’indomani e poi era giunto il momento di svuotare la vescica.
Aristide, si preparò a scendere dalla jeep per liberarla dalla mimetizzazione che la nascondeva, aprì il suo sportello laterale e mise un piede a terra senza mai lasciare la presa con la mano del Mauser che aveva tenuto tra le gambe per le intere due ore dell’appostamento. Appena ebbe posato il piede a terra, il leone appostato ad una decina di metri dietro la jeep, ruggii.
Il ruggito fu così potente da fare tremare la Jeep e con essa i suoi ospiti.
Papà Franco si fece ancor più piccolo rannicchiandosi all’interno del vano bagagli richiudendo il coperchio del ripostiglio sopra la propria testa.
Il gerarca fascista fu preso dal panico. Non riuscendo a dominare la paura intimò all’autista Ascaro di mettere in moto l’auto e scappare. Anch’egli terrorizzato, l’Ascaro obbedì, avviò il motore e parti con il piede a tavoletta sull’acceleratore, sollevando una nuvola di polvere.
Aristide, con un piede già a terra, fu sbalzato completamente fuori dal veicolo, rimanendo però miracolosamente in piedi sul terreno. Istintivamente, imbracciò il grosso Mauser e si rivolse verso la direzione del ruggito in attesa della carica del Leone che invece, sorpreso anch’egli e spaventato dal frastuono del motore impazzito della jeep, si era dato alla fuga. Allora Aristide si rivolse nuovamente alla jeep in piena corsa e fece fuoco mirando alle gomme.
Due precisi colpi, in rapida successione, fecero esplodere uno pneumatico obbligando l’autista a fermarsi sul bordo della pista.
Nei giorni seguenti il gerarca fascista fu richiamato in Italia per essere destinato ad incarichi meno esotici, forse anche a seguito del rapporto sull’accaduto che Aristide aveva inviato ai suoi superiori. Due giorni dopo, Il Forca archivio la pratica "Il Diavolo".
Aggiungi commento
Commenti